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      Appena trapassava la desiata il limitare, Ippolito stimò che derivasse da lei ogni orma che gli pervenne agli orecchi. Quanta gran gioia era pensare che un sol tetto adesso accoglieva ambedue! Ma convenire nella medesima casa, e non potere aprirle la concetta passione, e ricercarla d'amore, e investigarla nell'anima, - quanto grave angoscia e miseria! Due o tre volte balzava udendo toccare l'usciale, ma sempre fu la comare che veniva a confortarlo di starsi con buon animo, e a dirgli che madonna Lucrezia gli avrebbe menato la Dianora dopo il pranzo, quando gli ospiti sarebbero iti a dormire. Di tutte le cose sconvenienti e mal fatte, parve ad Ippolito il desinare la peggiore, imperciocchè non sapeva immaginare come enti ragionevoli, i quali potevano cibarsi di un tozzo di pane e bere una coppa di vino per la via, e andare oltre a fare all'amore, consentissero sedersi lungo tempo a mensa per gustare questa o quell'altra delicatura. E le cerimonie! Dio sa per quanta ora quegli zotici villanzoni avrebbero trattenuto la Dianora co' rispetti, con le ballate, con le tresche loro! Certo tra essi non v'era amante nessuno, altrimenti avendo facoltà di vagare a solo a sola per le verdi pianure, non s'intendeva come se ne andassero così raccolti insieme. Non pertanto Ippolito professava altissima riconoscenza alla comare Veronica, e tentò pure di usar cortesia alla sua vivanda e al suo vino, così che dopo pranzo la sua virtù se ne sentì ristorata.
      Ora riputiamo cosa necessaria avvertire il lettore che non debba giudicare dei tempi passati dai presenti.


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Scritti
di Francesco Domenico Guerrazzi
Le Monnier Firenze
1847 pagine 469

   





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