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      Di più costituirono Alberto Capparoni maestro di casa della Signoria alla custodia della torre, dandogliene la chiave, e lo stesso Burlamacchi consegnandogli per istrumento pubblico: il Capparoni accettò l'ufficio, o perchè non potesse fare a meno, o perchè piace a cui sta sotto saltare quando capita sul collo ai superiori, sia pure carceriere o carnefice; però ci pose per patto che gli fornissero gente da poterle rilevare, sicchè la squisita vigilanza non venisse mai a languire.
      I padri, consultato il negozio con più maturo consiglio, trovarono sempre maggiore argomento di spaventarsi: pareva loro impossibile che, correndo tempi pieni di mutazioni e vivendo uomini per natura e per abito sospettosi, si piegassero a credere Lucca incolpevole, anzi affatto inconscia della trama del suo gonfaloniere: se il papa o se l'imperatore pigliavano in odio la Repubblica, questa poteva apparecchiarsi a fare il suo testamento; e presso entrambi doppia l'accusa, epperò più difficile la difesa: al papa sarebbe premuto più la eresia, meno la ribellione, allo imperatore viceversa; la batteva tra la corda e la mannaia: quindi non è a dirsi se cotesti padri sentissero salirsi il freddo su per le ossa. Più che tutto tremavano di Cosimo duca di Firenze, genio malo; per istinto tigre, per potenza gatto; Tiberio nano, pure, non potendo sbranare, rodeva; e questa sua facoltà esercitava quotidianamente ai danni di Siena e di Lucca: a Siena rôse pur troppo: parricida, incestuoso, di eretici amico e ausiliatore, e nonostante questo ligio ai pontefici, zelatore di religiose susperstizioni e traditore del Carnesecchi.


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Vita di Francesco Burlamacchi
di Francesco Domenico Guerrazzi
Casa Editrice Italiana Milano
1868 pagine 355

   





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