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      Era ancora necessario che Cesare avesse in potestà sua la persona del Morone, stato autore e instrumento di tutte le pratiche, per potere col suo processo giustificare le imputazioni che si davano al duca di Milano. Non è cosa alcuna piú difficile a schifare che il fato, nessuno rimedio è contro a' mali determinati. Poteva già conoscere il Morone che la pratica tenuta col marchese di Pescara era vana; sapeva di essere in grandissimo odio appresso a tutti i soldati spagnuoli, tra i quali già molte cose della sua infedeltà si dicevano; e che Antonio de Leva publicamente minacciava di farlo ammazzare; non è credibile non considerasse la importanza della sua persona, che non vedesse in che grado si trovava il duca di Milano, inutile allora e quasi come morto; tra loro, già molti dí innanzi, era ogni cosa sospesa e piena di sospizione: ognuno lo confortava a non andare, egli medesimo ne stette ambiguo. Nondimeno, o avendo ancora occupato l'animo dalle simulazioni e dalle arti del marchese o facendo fondamento nella amicizia grande che gli pareva avere contratta con lui, o confidandosi della fede la quale disse poi avere avuta per una sua lettera, o per dire meglio tirato da quella necessità, che trascina gli uomini che non vogliono lasciarsi menare, si risolvé di andare quasi a una carcere manifesta: cosa a me tanto piú maravigliosa quanto mi restava in memoria avermi il Morone detto piú volte nello esercito, al tempo di Leone, non essere uomo in Italia né di maggiore malignità né di minore fede del marchese di Pescara.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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