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      Dimandò ancora che gli desse in mano Gian Angelo Riccio suo segretario e Poliziano segretario del Morone, acciò che si potessino esaminare sopra le imputazioni che erano date a lui di avere macchinato contro a Cesare. Alle quali dimande rispose il duca che teneva le castella di Milano e di Cremona in nome e a instanza di Cesare, al quale era stato sempre fedelissimo vassallo, e che non le voleva consegnare ad alcuno se prima non intendeva la sua volontà; la quale per intendere chiaramente gli manderebbe subito uno uomo proprio, pure che il marchese gli concedesse sicurtà di passare; e che non gli pareva onesto consentire di essere, in questo mezzo, serrato in castello; dalla quale violenza si difenderebbe in qualunque modo potesse. Avere bisogno per sé di Gian Angelo, per essere egli instrutto di tutte le cose sue importanti, né essere per allora appresso a sé altro ministro; e avere anche maggiore necessità di quello del Morone per poterlo presentare innanzi a Cesare, e giustificare con questo mezzo che, nella infermità sua, il padrone aveva fatto in suo nome, senza saputa sua, molte espedizioni che gli potrebbono essere di carico, se con questo mezzo non giustificasse la innocenza sua; e che le pratiche del Morone erano diverse e separate dalle pratiche sue. Lo effetto fu che, dopo molte repliche e protesti fatti da l'uno a l'altro per scrittura, il marchese costrinse il popolo di Milano a giurare fedeltà allo imperadore contro alla volontà sua, e con incredibile dispiacere di tutti messe per tutto lo stato officiali in nome di Cesare, e cominciò con le trincee a serrare il castello di Cremona e quello di Milano; nel quale il duca, con grandissimi conforti e speranze di soccorso dategli dal pontefice e da' viniziani, era risoluto di fermarsi, avendovi seco ottocento fanti eletti, e messevi quelle vettovaglie che comportò la brevità del tempo.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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