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      Senza dubbio, era un momento oscuro; ma ne sarebbe uscito. Dopo tutto, egli era arbitro del proprio destino, per brutto che dovesse essere, ne era padrone. S'aggrappava a quest'idea.
      In fondo in fondo, e per dir tutto, avrebbe preferito non andare affatto ad Arras: eppure vi andava.
      In mezzo ai suoi pensieri, frustava il cavallo, che procedeva a quel buon trotto, regolato e sicuro, che fa due leghe e mezzo all'ora. Ma a mano a mano che il baroccino avanzava, egli sentiva dentro di sé qualcosa indietreggiare.
      All'alba si trovava in aperta campagna. La città di Montreuil a mare era parecchio lontana, alle sue spalle. Guardò imbiancarsi l'orizzonte; guardò, senza vedere, passar davanti ai suoi occhi tutte le fredde immagini di un'alba d'inverno; poiché il mattino ha i suoi aspetti, come la sera. Non li vedeva; ma, senza che se n'avvedesse e per una specie di penetrazione quasi fisica, quei neri profili d'alberi e di colline aggiungevano al violento stato del suo animo alcunché di tetro e sinistro.
      Quando passava davanti ad una di quelle case isolate che costeggiano qua e là la strada, diceva fra sé: «Eppure, là dentro c'è della gente che dorme!»
      Il trotto del cavallo, il tintinnare dei finimenti, le ruote sul selciato producevano un rumore dolce e monotono: incantevole, quando si è allegri, lugubre, quando si è tristi.
      Arrivò a Hesdin, a giorno fatto. Si fermò a un'osteria, per lasciar riposare il cavallo e fargli dare l'avena. Quel cavallo, come aveva detto mastro Scaufflaire, era di quella piccola razza dell'alta Garonna che ha troppa testa, troppo ventre e insufficiente sviluppo del collo; ma ha petto largo, groppa ampia, gamba sottile e fine e piede solido: razza brutta, ma robusta e sana.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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