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      È raro che da tutte quelle parole si vedano uscire carità e compassione; più spesso, quel che ne esce è una condanna data con precipitazione. Tutti quei crocchi sembrano, all'osservatore che passa e fantastica, tanti tetri alveari, dove menti ronzanti si accordano a edificare fra le tenebre.
      Quella sala, spaziosa e rischiarata da una sola lampada, era una vecchia anticamera del vescovado e serviva da sala dei passi perduti. Una porta a due battenti, chiusa in quel momento, la separava dalla gran sala in cui teneva seduta la corte d'assise.
      L'oscurità era tale, ch'egli non esitò a rivolgersi al primo avvocato che incontrò.
      «A che punto sono, signore?» chiese.
      «È finito,» rispose l'avvocato.
      «Finito?»
      Quella parola fu ripetuta con un tale accento, che l'avvocato si voltò.
      «Scusate, signore, siete forse un parente?»
      «No; non conosco nessuno, qui. E v'è stata condanna?»
      «Certo. Non era possibile altrimenti...»
      «Ai lavori forzati?»
      «A vita.»
      Egli riprese, con una voce tanto debole, che si sentiva pena:
      «Dunque, l'identità è stata constatata?»
      «Che identità?» rispose l'avvocato. «Non c'era nessuna identità da constatare. Il processo era semplice; quella donna aveva ucciso suo figlio. L'infanticidio era provato; perciò la giuria ha scartato la premeditazione e l'ha condannata a vita.»
      «Si tratta d'una donna, allora?»
      «Ma certo, la giovane Limosin. Di che cosa volevate parlare, invece?»
      «Di niente. Ma dal momento che è finito, come avviene che la sala sia ancora illuminata?»
      «È per l'altro processo, incominciato circa due ore or sono.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





Limosin