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      Tutto il giorno quella meraviglia era stata esposta all'ammirazione dei passanti sotto i dieci anni, senza che si fosse trovata in Montfermeil una madre così ricca, o almeno così prodiga, da regalarla alla propria figlia. Eponina e Azelma avevan passato ore intere a contemplarla e perfino Cosette (furtivamente, è vero) aveva osato guardarla.
      Quando Cosette uscì, col secchio in mano, non poté trattenersi, benché triste ed accasciata, dall'alzare gli occhi verso quella prodigiosa bambola, la signora, com'ella la chiamava: e s'arrestò impietrita. Non l'aveva ancor vista da vicino: l'intera bottega le sembrava un palazzo e quella bambola era una visione. Eran la gioia, lo splendore, la ricchezza, la felicità che apparivano in una specie di chimerica luce a quell'infelice esserino così profondamente immerso in una miseria gelida. Cosette misurava colla sagacità ingenua e triste dell'infanzia l'abisso che la separava da quella bambola e s'andava dicendo che bisognava essere una regina o almeno una principessa per avere una «cosa» come quella. Osservava quel bel vestito rosa, quei bei capelli lisci e pensava: «Come dev'essere felice, quella bambola!» Non poteva staccare gli occhi da quella bottega fantastica e, quanto più guardava, tanto più era abbacinata: credeva di vedere il paradiso. Dietro la grande, vi erano altre bambole che le sembravan fate e genii; e il mercante che andava e veniva in fondo alla baracca le faceva un po' l'effetto d'essere il Padre Eterno.
      In quell'adorazione, dimenticava tutto, anche la commissione di cui era incaricata; all'improvviso, la voce rude della Thénardier la richiamò alla realtà:


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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