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      Ora, dopo il carcere, vedeva il chiostro; e pensando che aveva fatto parte del carcere e che adesso era, per così dire, spettatore del chiostro, li confrontava con ansità nel suo pensiero.
      Talvolta, appoggiava i gomiti sul manico della vanga e scendeva lentamente nelle spire senza fondo della meditazione.
      Ricordava gli antichi compagni. Ricordava quanto fossero miserabili: s'alzavano all'alba e lavoravano fino a notte; a stento veniva loro concesso il sonno; si coricavano sopra un tavolaccio, sul quale era tollerato soltanto un materasso di due pollici di spessore, in stanzoni che venivan riscaldati solo nei mesi più rigidi dell'anno; eran vestiti di spaventose casacche rosse; veniva loro permesso, per grazia, un paio di pantaloni di tela nei grandi calori ed un camiciotto di lana nei grandi freddi; non bevevan vino e mangiavan carne solo quando si recavano a qualche lavoro faticoso. Vivevano senza più un nome, designati solo da numeri e in un certo senso fatti cifre, abbassando gli occhi, abbassando la voce, coi capelli rasati, sotto il bastone, nella vergogna.
      Poi il suo spirito ritornava agli esseri che aveva sotto gli occhi.
      Anche quegli esseri vivevano coi capelli tagliati, cogli occhi bassi, colla voce bassa; non nella vergogna, ma in mezzo agli scherni del mondo; non colla schiena illividita dal bastone, ma colle spalle lacerate dalla disciplina. Anche per essi i loro nomi fra gli uomini erano svaniti, essi pure esistevan solo sotto appellativi austeri. Non mangiavano mai carne e non bevevano mai vino; rimanevan spesso senza mangiare fino a sera; eran vestiti, non colla casacca rossa, ma col nero sudario di lana, pesante d'estate, leggero d'inverno, senza potervi nulla togliere e nulla aggiungere, e senza neppur avere, secondo la stagione, la possibilità d'un abito di tela o d'un soprabito di lana; e portavan per sei mesi dell'anno camicie di lana ruvida che davan loro la febbre.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886