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      Si parlava del più e del meno, senza passione, rumorosamente. Eccetto Enjolras e Mario, che stavano zitti, ognuno disputava del più e del meno; le chiacchiere fra amici hanno talvolta sereni tumulti. Gioco e confusione, entravano nella conversazione. Si gettavan l'un l'altro frasi, colte a volo, i discorsi s'intrecciavano.
      Nessuna donna era ammessa in quel retrobottega, all'infuori della Luigina, la sguattera del Caffè, che l'attraversava di tanto in tanto, per recarsi dall'acquario al «laboratorio».
      Grantaire, completamente ubriaco, assordava l'angolo di cui s'era impadronito; ragionava e sragionava a squarciagola, gridando:
      «Ho sete. Mortali, ho fatto un sogno, che la botte d'Eidelberg aveva un attacco d'apoplessia e io facevo parte della dozzina di sanguisughe che le dovevan essere applicate. Vorrei bere. Desidero dimenticare la vita: la vita è una sconcia invenzione di chissà chi, non dura e non val niente. A viver ci si rompe il collo. La vita è uno scenario che ha pochissime quinte, come la felicità è un vecchio telone, dipinto da una parte sola. l'Ecclesiaste dice: tutto è vanità, ed io la penso come quel buon vecchio, che forse è mai esistito. Lo zero, non volendo andar nudo, s'è vestito di vanità. O vanità! Si riveste tutto a nuovo colle grandi parole! Una cucina è un laboratorio, un ballerino un professore, un saltimbanco un ginnasta, un boxeur è un pugilatore, un farmacista un chimico, un parrucchiere è un artista, un capomastro è un architetto, un fantino è uno sportman, un millepiedi è uno pterigibranco.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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