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      «Esser libero,» disse Combeferre.
      Mario chinò il capo a sue volta. Quella frase semplice e fredda aveva trapassato come una lama d'acciaio la sua effusione epica, ed egli la sentiva svanire dentro di sé. Quando alzò gli occhi, Combeferre non c'era più; soddisfatto probabilmente della sua replica all'apoteosi, era uscito e tutti, meno Enjolras, l'avevano seguito. La sala s'era svuotata. Enjolras, rimasto solo con Mario, lo guardava tutto serio. Pure, riordinate le sue idee, Mario non si diede per vinto; v'era in lui un ribollimento, che stava senza dubbio per tradursi in sillogismi contro Enjolras, quando ad un tratto si sentì qualcuno che si allontanava cantando sulla scale. Era Combeferre, che cantava:
     
      Se Cesare volesse regalarmiLa gloria della guerra,
      E dovessi per questo discostarmiDall'amor di mia madre
      Direi al grande Cesare:
      Riprendi scettro e biga
      Preferisco mia madre
      Preferisco mia madre.
     
      L'accento tenero e fiero con cui Combeferre la cantava, dava a quella strofa una strana grandezza. Mario pensoso e lo sguardo fisso al soffitto, ripeté quasi macchinalmente: «Mia Madre
      In quel momento, sentì sulla spalla la mano d'Enjolras:
      «Cittadino», gli disse Enjolras, «mia madre è la repubblica»
      VI • «RES ANGUSTA»
      Quella serata lasciò l'animo di Mario profondamente scosso e triste; provò quello che, forse, prova la terra, nel momento in cui viene aperta col ferro per deporvi il grano di frumento. Essa sente la ferita; lo schiudersi del germe e la gioia del frutto vengono soltanto dopo.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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