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      Cosa? Ma come! Il gergo! Ma il gergo è orribile! Ma è la lingua delle ciurme, degli ergastoli, delle prigioni, di tutto ciò che la società ha di più abbominevole! «Eccetera, eccetera.»
      Noi non abbiamo mai capito questo genere di obiezioni.
      In seguito, due possenti romanzieri, l'uno dei quali è un profondo osservatore del cuore umano e l'altro un intrepido amico del popolo, Balzac ed Eugenio Sue, avendo fatto parlare dei banditi nella loro lingua naturale, come aveva fatto nel 1828 l'autore dell'Ultimo giorno d'un condannato, videro elevarsi gli stessi reclami. Si ripeté: «Che vogliono da noi gli scrittori, con quel ributtante idioma? Il gergo è odioso! Il gergo fa orrore!»
      E chi lo nega? Certo.
      Ma quando si tratta di scandagliare una piaga, un abisso o una società, da quando in qua è un torto il discendere troppo, l'andare fino in fondo? Noi avevamo sempre pensato che fosse talvolta un atto di coraggio, o almeno un'azione semplice ed utile, degna della simpatica attenzione che merita il dovere accettato e compiuto. Non esplorare tutto, non studiare tutto, fermarsi per via, perché? Bisogna che lo scandaglio possa fermarsi non lo scandagliatore.
      Certo, andare a cercare nei bassifondi dell'ordine sociale, là dove finisce la terra e incomincia il fango, frugare in quelle tenebre vaghe, inseguire, ghermire e buttare ancor palpitante sul suolo quell'idioma abbietto che gronda di fango nel trarlo così alla luce, quel vocabolario pustoloso, ogni parola del quale sembra un immondo anello d'un mostro del limo e delle tenebre, non è un compito attraente né facile.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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