Vicino a Cosette, si sentiva vicino al suo bene, alla sua cosa, al suo despota ed al suo schiavo. Pareva che avessero talmente fuso le loro anime, che, se avessero voluto riprenderle, sarebbe stato loro impossibile riconoscerle. «Questa è la mia.» «No, è la mia.» «T'assicuro che ti sbagli: sono proprio io.» «Ciò che tu prendi per te, sono io.» Mario faceva parte di Cosette e Cosette di Mario, che sentiva Cosette vivere in sé. Aver Cosette, possedere Cosette, non era per lui cosa molto distinta dal respirare. E fu nel bel mezzo di quella fede, di quell'ebbrezza e di quella sovranità che le parole: «Noi partiremo,» caddero ad un tratto, e la voce della realtà gli gridò: «Cosette non è tua!»
      Mario si svegliò. Da sei settimane egli viveva, come abbiam detto, fuori della vita; quella parola, partire, lo fece rientrare in essa in modo rude.
      Non trovò parole; solo, Cosette sentì che la mano di lui era freddissima, e gli chiese a sua volta:
      «Che hai?»
      Egli rispose così piano che Cosette lo sentì a stento:
      «Non capisco quello che hai detto.»
      Ella riprese:
      «Stamattina il babbo m'ha detto di preparare tutte le mie cosucce e di star pronta, che m'avrebbe data la sua biancheria da mettere in valigia, perché era costretto a un viaggio, che stavamo per partire, che ci voleva una valigia grande per me ed una piccola per lui, di preparare tutto entro questa settimana, e che forse saremmo andati in Inghilterra.»
      «Ma è mostruoso!» esclamò Mario.
      Certo, in quel momento, nella fantasia di Mario, nessun abuso di potere, nessuna violenza, nessuna infamia dei più famosi tiranni, nessun atto di Busiride, di Tiberio o d'Enrico VIII uguagliava in ferocia quello del signor Fauchelevent, che conduceva sua figlia in Inghilterra, per affari.