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      «Creperei, piuttosto,» diceva. Non trovava alcun torto da rimproverarsi, ma pensava a Mario solo con una profonda tenerezza e colla muta disperazione d'un vecchio che sta per andarsene nelle tenebre.
      Incominciava pure a perdere i denti, ciò che accresceva la sua tristezza. Pur senza confessarlo a se stesso, poiché ne sarebbe stato infuriato e vergognoso, Gillenormand non aveva mai amato un'amante come amava Mario.
      Aveva fatto porre nella sua camera, di fronte al capezzale, come la prima cosa che volesse vedere svegliandosi, un vecchio ritratto dell'altra figlia, la signora Pontmercy, fatto quand'ella aveva diciott'anni; e lo guardava incessantemente. Gli capitò un giorno di dire, mentre l'osservava:
      «Trovo che assomiglia.»
      «A mia sorella?» riprese la signorina Gillenormand. «Ma certo!»
      Il vecchio aggiunse:
      «Ed anche a lui.»
      Una volta, mentre stava seduto, i ginocchi l'uno contro l'altro, gli occhi socchiusi, in un atteggiamento di prostrazione, sua figlia s'arrischiò a dirgli:
      «Siete sempre arrabbiato con lui, babbo?»
      E si fermò, non osando proseguire.
      «Lui, chi?» egli chiese.
      «Quel povero Mario
      Egli sollevò la testa canuta, appoggiò il pugno magro e rugoso sul tavolo e gridò coll'accento più irritato e vibrante che poté:
      «Povero Mario, dite? Quel signore è uno stupido, un pezzentaccio, un vanitosello ingrato, senza cuore e senz'anima, orgoglioso, cattivo!»
      E volse il capo altrove, perché sua figlia non vedesse una lagrima che gli spuntava dagli occhi.
      Tre giorni dopo, uscendo da un silenzio che durava da quattro ore, disse a bruciapelo alla figlia:


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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