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      La sala era scura; grosse nuvole finivan di togliere la luce. Non v'era nessuno nella bettola e nella via, perché tutti erano andati a «vedere quel che succedeva».
      «È mezzogiorno o mezzanotte?» gridò Bossuet. «Non ci si vede un corno. Luce, Fricassea
      Grantaire, triste, beveva.
      «Enjolras mi disprezza,» mormorò. «Egli ha detto: <Joly è malato e Grantaire è ubriaco>. Per questo ha mandato Navet da Bossuet. Se fosse venuto a prender me, l'avrei seguito: tanto peggio per lui. Non andrò al suo funerale.»
      Presa questa decisione, Bossuet, Joly e Grantaire non si mossero più dalla bettola. Verso le due del pomeriggio, la tavola alla quale stavano seduti era coperta di bottiglie vuote; su di essa due candele ardevan una in un candeliere di rame perfettamente verde, l'altra nel collo d'una bottiglia incrinata. Grantaire aveva trascinato Joly e Bossuet verso il vino; Bossuet e Joly avevan trascinato Grantaire verso l'allegria.
      Quanto a Grantaire, dal mezzogiorno in là, aveva oltrepassato il vino, mediocre sorgente di sogni. Il vino, presso gli ubriaconi sul serio, ha solo un successo di stima. In fatto d'ebbrezza, v'è la magìa bianca e v'è la magìa nera; ora, il vino è soltanto magìa bianca. Grantaire era un avventuroso bevitore di sogni, e i neri abissi d'una terribile ubriachezza, semiaperti davanti a lui, lo attiravano, anziché fermarlo. Aveva lasciato in asso le bottiglie e s'era attaccato alla tazza da birra. Questa è l'abisso; poiché non aveva sottomano né oppio né ascisc e voleva riempirsi il cervello di crepuscolo, era ricorso a quello spaventoso miscuglio d'acquavite, birra forte e assenzio, che procura letargie terribili.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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