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      Egli scorgeva nelle tenebre lo spaventoso sorgere d'un ignoto sole morale, che lo riempiva d'orrore e lo obbligava, costringendolo, gufo com'era, allo sguardo dell'aquila.
      Andava dicendosi ch'era dunque vero che vi fossero eccezioni e che l'autorità poteva essere imbarazzata, che la regola poteva essere impotente davanti a un fatto, che non tutto s'inquadrava nel testo del codice, che l'imprevisto si faceva ubbidire, che la virtù d'un galeotto poteva tendere un tranello a quella d'un funzionario, che il mostruoso poteva essere divino, che il destino aveva di queste imboscate; e pensava con disperazione che nemmeno lui era stato al riparo da una sorpresa.
      Era costretto a riconoscere che la bontà esisteva: quel galeotto era stato buono e, cosa inaudita, egli stesso lo era stato poco prima. Dunque, andava depravandosi; si trovava vile, si faceva orrore.
      L'ideale, per Javert, non era d'essere umano, grande o sublime: era d'essere irreprensibile. Ora, egli aveva mancato.
      Come aveva fatto a giungere a quel punto? Come s'era svolto tutto ciò? Non avrebbe potuto dirlo a se stesso. Si prendeva la testa fra le mani; ma aveva un bel fare, non riusciva a spiegarselo.
      Certo, egli aveva sempre avuto intenzione di riconsegnare Valjean alla legge, di cui lui era il prigioniero, così com'egli, Javert, ne era lo schiavo; non s'era confessato per un solo istante, mentre lo aveva fra le unghie, d'avere il pensiero di lasciarlo andare. Era in certo qual modo a sua insaputa che la mano di lui s'era aperta e l'aveva lasciato sfuggire.


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I miserabili
di Victor Hugo
pagine 1886

   





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