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      Nella prima maniera il valore del fine e quindi del criterio supremo che la costruzione logica assume, e sul quale si fonda la giustificazione delle norme morali, è manifestamente dato alla ragione, non posto da lei; ma l'assumerlo può apparire e appare praticamente legittimo, finché è ammesso e fuori di contestazione che il fine è supremo, perché è in realtà il fine unico, segnato dalla stessa «natura umana»; quello a cui si riducono tutti i fini particolari; che li comprende, li concilia e li subordina tutti. Tale è nella sostanza il procedimento logico delle dottrine che assumono come fine naturale - al quale necessariamente si riconduce o mette capo qualsivoglia fine parziale - la felicità o la perfezione o altro preteso fine dello stesso tipo, che li compendii tutti. Ma è appena necessario osservare come quegli stessi caratteri per i quali pare cosí naturale, cosí evidente e cosí «ragionevole», riconoscere questo fine come il fine per eccellenza, senza contestazione e senza eccezione comune e costante e incoercibile della natura umana, sono quei medesimi che fanno di questo fine apparentemente unico, un termine vago e vacuo di ogni contenuto determinato e concreto; del quale nessuno contesta che sia supremo, finché ciascuno può dare a quel termine il significato che si accorda, per lui, col valore che gli si attribuisce di supremo.
      Ma perché una qualsiasi costruzione sia possibile è necessario che il termine assuma un certo contenuto determinato; il quale contenuto è esso che serve di fondamento alla deduzione; mentre ciò di cui si riconosce come supremo e fuori di contestazione il valore è quella Felicità (o Perfezione, o altro Bene) della quale quel contenuto assume la veste, il titolo e le prerogative; e in nome della quale si presenta appunto come fine.


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I limiti del razionalismo etico
di Erminio Juvalta
Einaudi Editore Torino
pagine 59

   





Felicità Perfezione