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      Quello che è veramente il fine, in realtà, benché tacitamente assunto, rispetto al quale le norme sono stabilite, e che fornisce il criterio effettivo della condotta buona, è la rispondenza alle esigenze della struttura e della vita della società; quello che è palesemente assunto nella deduzione logica è un fine diverso. In breve: il fine che giustifica le norme non è quello da cui sono dedotte; la ragione per la quale le norme sono poste come buone non è la ragione per la quale si pretende che debbano valere come buone. Donde nasce questa incongruenza? Nasce da ciò: che il fine realmente assunto dovrebbe avere, ma non ha il carattere di fine universalmente buono, che pur si pretende nel fine morale; o, per esser piú chiari, che tra le condizioni necessarie alla vita umana sociale ci sono o si assumono delle esigenze le quali sono in tutto o in parte incompatibili colle esigenze della vita umana individuale.
      Vediamolo in breve.
     
     
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      È bensí vero che, per impulso di quell'allargarsi e universalizzarsi del concetto morale della giustizia, che trovò la sua condizione esterna nella unificazione romana del mondo, e la sua affermazione ideale nel Cristianesimo, la speculazione etica viene via via allentando la relazione che stringeva originariamente la moralità alle esigenze concrete e determinate di questa o quest'altra forma di società storicamente definita; ed è vero che si propone poi di determinare il fine morale con un processo in apparenza puramente razionale, cercando di far astrazione da ciò che in quelle esigenze vi poteva essere di accidentale e di mutabile, e tenendo fermo soltanto ciò che è o appare universale e costante.


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Prolegomeni a una morale distinta dalla metafisica
di Erminio Juvalta
Einaudi Editore Torino
pagine 61

   





Cristianesimo