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      La favola del diritto al lavoro finì nella tragedia delle giornate di Giugno. La discussione parlamentare che se ne fece in seguito fu parodia. Il piagnucoloso e retorico Lamartine, quel grande uomo di occasione, avea avuto la opportunità di pronunciare l'ultima o la penultima delle sue celebrate frasi: "L'esperienza dei popoli sono le catastrofi"; e ciò bastava per l'ironia della storia.
     
      Ma quello scritto, che era il Manifesto, di così piccola mole com'è, e di stile così alieno dalla retorica insinuazione di una fede o di una credenza, se fu tante e tante cose come sedimento di pensieri varii ridotti per la prima volta ad unità intuitiva di sistema, e come raccolta di germi capaci di largo sviluppo, non fu però, né pretese di essere, né il codice del socialismo, né il catechismo del comunismo critico, né il vademecum della rivoluzione proletaria. Le quintessenze possiamo ben lasciarle all'illustre Schäffle, a cui conto lasciamo anche ben volentieri la famosa questione sociale che è questione di ventre. Il ventre dello Schäffle fece per molti anni bella mostra di sé per il mondo, a delizia di tanti sportisti del socialismo, ed a sollievo di tanti poliziotti. Il comunismo critico, in verità, cominciava appena col Manifesto; doveva svilupparsi, e difatti si è sviluppato.
      Il complesso di dottrine, che ora si è soliti di chiamare marxismo, non è giunto invero a maturità, se non negli anni dal '60 al '70. Ci corre di certo molto dall'opuscolo Capitale e lavoro a mercede1, nel quale si tocca per la prima volta, in termini precisi, del come dalla compra e dall'uso della merce-lavoro si ottenga un prodotto superiore al costo, il che era il nocciolo della insoluta questione del plusvalore, fino agli amplii, complicati e multilaterali sviluppi del libro del Capitale.


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In memoria del Manifesto dei comunisti
di Antonio Labriola
1895 pagine 79

   





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