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      Ottimisti o pessimisti che siano, trovan tutti le colonne d'Ercole del genere umano. Non rare volte accade che tale sentimento, nella sua forma pessimistica, operi inconsapevolmente su molti di quelli che vanno ad ingrossare, con gli altri déclassés, le file dell'anarchismo.
      C'è poi di quelli che si spingono più oltre di così, e si metton quindi a teorizzare su la obiettiva inverosimiglianza degli assunti del comunismo critico. L'enunciato del Manifesto, che, cioè, la semplificazione di tutte le lotte di classe in una sola rechi in sé la necessità della rivoluzione proletaria, sarebbe intrinsecamente fallace per cotesti polemisti che teorizzano. Questa dottrina nostra sarebbe infondata, come quella che pretende di trarre una illazione scientifica ed una regola di condotta pratica dalla argomentata previsione di un presunto fatto, il quale invece, secondo cotesti buoni e pacifici oppositori, sarebbe un semplice punto teorico spostabile e differibile all'infinito. La pretesa inevitabile, e finale, e risolutiva collisione tra le forze produttive e la forma della produzione non verrebbe mai a capo, perché si disperde difatti, secondo loro, in infiniti particolari attriti, si moltiplica nelle parziali collisioni della concorrenza economica, trova indugio e impedimento nei ripieghi e nelle violenze dell'arte di governo. In altri termini, la società presente, anziché far crepaccio e dissolversi, rinnoverebbe in perpetuo l'opera di sua riparazione e ritocco. Ogni moto proletario, che non venga represso con la violenza, come fu nel giugno del 1848 e nel maggio del 1871, cesserebbe per lenta esaustione, come accadde del cartismo, che finì nel Trades-Unionismo, cavallo di battaglia di cotesto modo di argomentare, onore e vanto dei volgari economisti e dei sociologi da strapazzo.


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In memoria del Manifesto dei comunisti
di Antonio Labriola
1895 pagine 79

   





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