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      Egli, sì, ci dice: questo è un albero, quello è un monte; questo è un pezzo di mare e quello un pezzo di cielo, e così via; ma la visione del paesaggio non ce la dà, e la ragione ne è che, per darcela, dovrebbe prima averla lui, il che, proprio a lui, è impossibile, perchè, capacissimo di vedere il fuori delle cose, egli delle cose ignora l'anima, ossia l'espressione che esse assumono rispetto all'anima nostra. Egli descrive solo cogli occhi, solo quello che vedono gli occhi: i colori, le dimensioni, le superficie e sopratutto il numero delle cose, ma il loro senso gli sfugge, perchè egli è destituito di quell'intuito che è prerogativa solo dei veri poeti, questi ispirati interpreti della grande natura, questi divini traduttori delle voces rerum, i quali, commossi, ci commuovono. Egli descrive alla maniera dei contadini ai quali sfuggono le sintesi delle linee, le armonie, le sfumature, gli ineffabili connubî d'ombra e di luce in cui le cose si fondono in quell'unica cosa che chiamasi paesaggio. Egli fa elencazioni, enumerazioni, inventarî, e, ad ogni passo, a dare un po' di chiarezza e di movimento a tante parole inerti che non formano un organismo, perchè poste le une accanto alle altre, non per l'esigenza del senso, ma per l'esigenza del suono, egli, che è senza vista interiore, ricorre a montagne di similitudini, tutte allo stesso modo ingombranti, come accade dei puntelli attorno a un edificio che spiomba da tutti i lati. E alla stessa guisa che i puntelli sono estranei a quell'organismo che è un edificio, alla stessa guisa le similitudini del D'Annunzio non han nulla da vedere colle cose che egli vorrebbe esprimere, ma non esprime; peggio: esse servono a simulare - (e perciò sono una selva) - servono a simulare la esistenza di un edifizio che non esiste, di un romanzo o di un dramma di cui egli non ci dà che solo il nome.


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La Superfemina abruzzese
di Enotrio Ladenarda
Pedone Lauriel Palermo
1914 pagine 253

   





D'Annunzio