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      All'incontro notava che niuno stato è così misero, il quale non possa peggiorare; e che nessun mortale, per infelicissimo che sia, può consolarsi né vantarsi, dicendo essere in tanta infelicità, che ella non comporti accrescimento. Ancorché la speranza non abbia termine, i beni degli uomini sono terminati; anzi a un di presso il ricco e il povero, il signore e il servo, se noi compensiamo le qualità del loro stato colle assuefazioni e coi desiderii loro, si trovano avere generalmente una stessa quantità di bene. Ma la natura non ha posto alcun termine ai nostri mali; e quasi la stessa immaginativa non può fingere alcuna tanta calamità, che non si verifichi di presente, o già non sia stata verificata, o per ultimo non si possa verificare, in qualcuno della nostra specie. Per tanto, laddove la maggior parte degli uomini non hanno in verità che sperare alcuno aumento della quantità di bene che posseggono; a niuno mai nello spazio di questa vita, può mancar materia non vana di timore: e se la fortuna presto si riduce in grado, che ella veramente non ha virtù di beneficarci da vantaggio, non perde però in alcun tempo la facoltà di offenderci con danni nuovi e tali da vincere e rompere la stessa fermezza della disperazione.
      Ridevasi spesse volte di quei filosofi che stimarono che l'uomo si possa sottrarre dalla potestà della fortuna, disprezzando e riputando come altrui tutti i beni e i mali che non è in sua propria mano il conseguire o evitare, il mantenere o liberarsene; e non riponendo la beatitudine e l'infelicità propria in altro, che in quel che dipende totalmente da esso lui.


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Operette morali
di Giacomo Leopardi
pagine 308