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      In verità quest'uso mi par come una di quelle cerimonie o pratiche antiche, alienissime dai costumi presenti, le quali contuttociò si mantengono, per virtù della consuetudine. Ma io che non mi posso adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quell'uso; e scrivo in lingua moderna, e non dei tempi troiani. In secondo luogo; non tanto io cerco mordere ne' miei scritti la nostra specie, quanto dolermi del fato. Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile, che l'infelicità necessaria di tutti i viventi. Se questa infelicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo e qualunque altro discorso. Se è vera, perché non mi ha da essere né pur lecito di dolermene apertamente e liberamente, e dire, io patisco? Ma se mi dolessi piangendo (e questa si è la terza causa che mi muove), darei noia non piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto. Ridendo dei nostri mali, trovo qualche conforto; e procuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questo non mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere dei nostri mali sia l'unico profitto che se ne possa cavare, e l'unico rimedio che vi si trovi. Dicono i poeti che la disperazione ha sempre nella bocca un sorriso. Non dovete pensare che io non compatisca all'infelicità umana. Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessuna arte, nessuna industria, nessun patto; stimo assai più degno dell'uomo, e di una disperazione magnanima, il ridere dei mali comuni; che il mettermene a sospirare, lagrimare e stridere insieme cogli altri, o incitandoli a fare altrettanto.


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Operette morali
di Giacomo Leopardi
pagine 308