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      Ho un barlume nella memoria, ch'io da ragazzo e da giovanotto avessi compassione; ma è lunghissimo tempo che i mali altrui mi commuovono quanto un predicatore italiano. È gran tempo che la sfortuna non fa più fortuna, se non quando è falsa ec. e chi è sventurato lo è per davvero e non per giuoco. Ma tu non sei mica bello.
      G. V. E. dice bene.
      M. Dico bene senza fallo: questo già s'intende. Ma in somma, disgraziato e non bello. Figlio mio, non penso di poterti giovare a niente.
      G. Ma s'accerti Vostra Eccellenza che ho bonissimo cuore, e mi sono sempre esercitato nella virtù.
      M. Peggio che peggio. Tu vuoi morir disperato, e appiccarti da te stesso ec. ec. (segua un discorso intorno al danno dell'aver buon cuore, e sensibilità). Sei nobile?
      G. Eccellenza sì.
      M. Questo va bene. Ricco?
      G. E come, Eccellenza, se sono stato sempre galantuomo?
      M. Via, questo non farà caso. Quando sarai divenuto un furfante, arricchirai. La nobiltà, figliuolo, è una gran bella cosa, e perché sei nobile, voglio vedere d'aiutarti, sicché ti prendo al mio servizio.
      G. V. E. mi comandi in che maniera io mi debba regolare.
      M. Figlio mio, per condursi bene ci vuole un poco d'arte.
      G. V. E. si compiaccia di credermi, ch'io non manco d'ingegno, anzi tutti mi dicono ch'io n'ho moltissimo, e se ne fanno maraviglia.
      M. Questo non rileva. (Il punto non consiste qui). Non basta avere ingegno, ma un certo tale ingegno. Se hai questo, procura di coltivarlo, e non curarti dell'altro. Se questo ti manca, qualunque altro ingegno, fosse anche maggiore che non fu l'ingegno di Omero e di Salomone, non ti può valere a nulla.


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Operette morali
di Giacomo Leopardi
pagine 308

   





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