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      E però Teofrasto non seguitò dicendo che la stessa gloria le più volte è opera della fortuna piuttosto che del valore; il che non si poteva dire anticamente così bene come oggidì: ma se Teofrasto l'avesse potuto aggiungere, non mancava al suo concetto nessuna parte che esso non fosse ragguagliatissimo a quello di Bruto.
      Questi tali rinnegamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimi che abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita, cioè tutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riescono ordinarissimi e giornalieri dopo che l'intelletto umano coll'andare dei secoli ha scoperto, non dico la nudità, ma fino agli scheletri delle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consolazione e rimedio principale della nostra infelicità, s'è ridotta a denunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, non conoscendola, o non l'avrebbero sentita, o certo l'avrebbero medicata colla speranza. Ma fra gli antichi, assuefatti com'erano a credere, secondo l'insegnamento della natura, che le cose fossero cose e non ombre, e la vita umana destinata ad altro che alla miseria, queste sì fatte apostasie cagionate, non da passioni o vizi, ma dal senso e discernimento della verità, non si trova che intervenissero se non di rado; e però, quando si trova, è ragione che il filosofo le consideri attentamente.
      E più maraviglia ci debbono fare le sentenze di Teofrasto, quanto che le condizioni della sua morte non si potevano chiamare infelici, e non pare che Teofrasto se ne potesse rammaricare, avendo conseguito e goduto fino allora per lunghissimo spazio il suo principale intento, ch'era stata la gloria.


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Operette morali
di Giacomo Leopardi
pagine 308

   





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