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      S'ella non è più l'arbitro nè la regola della nostra vita, perchè dev'esserlo della nostra morte? Se il suo fine è la felicità degli esseri, e questo è perduto per noi vivendo, non ubbidisce meglio alla natura, non [2242]proccura meglio il di lei scopo chi si libera colla morte dall'infelicità altrimenti inevitabile, di chi s'astiene di farlo, osservando il divieto naturale, che non vivendo noi più naturalmente, nè potendo più godere della felicità prescrittaci dalla natura, manca ora affatto del suo fondamento?
      (10. Dic. 1821.)
     
      Alla p.1128. sotto il principio. Volete ancora vedere la fratellanza e il facile scambio tra la f e il v? Osservate il nostro schifare e schivare che son lo stesso, e non si sa qual de' due sia il vero, se non che schifare può sostenersi col sostantivo schifo che forse è sua radice (Crus. Schifo add. §.3.), e che non si dice schivo; così schifezza ec.
      (10. Dic. 1821.)
     
      Ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore, o una commozione, un senso di malinconia, fissandosi col pensiero in una cosa che sia finita per sempre, massime s'ella è stata al tempo suo, e familiare a lui. Dico di qualunque cosa soggetta [2243]a finire, come la vita o la compagnia della persona la più indifferente per lui (ed anche molesta, anche odiosa), la gioventù della medesima; un'usanza, un metodo di vita. ec. Fuorchè se questa cosa per sempre finita, non è appunto un dolore, una sventura ec. o una fatica, o se l'esser finita, non è lo stesso che aver conseguito il suo proprio scopo, esser giunta dove per suo fine mirava ec.


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Zibaldone. Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
Parte Prima
di Giacomo Leopardi
pagine 1913

   





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