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      Perocchè l'assenza, la mancanza, la negazione del piacere al quale il vivente tende come a suo sommo ed unico fine, perpetuamente, e in ciascuno istante, per natura, per essenza, per amor proprio inseparabile da lui; la negazione, dico, del piacere il quale è la perfezione della vita, non è un semplice non godere, ma è un patire (come ho dimostrato nella teoria del piacere): perocchè l'uomo e [2553]il vivente non può esser privo della perfezione della sua esistenza, e quindi della sua felicità, senza patire, e senza infelicità. E tra la felicità e l'infelicità non v'è condizione di mezzo. Quella è il fine necessario, continuo e perpetuo di tutti gli atti esterni ed interni, e di tutta la vita dell'animale. Non ottenendolo, l'animale è infelice; e questo in ciascuno di quei momenti, nei quali desiderando il detto fine, ossia la felicità, infinitamente, come fa sempre, non l'ottiene e n'è privo, come lo è sempre. E però l'uomo dev'esser fisicamente certo di non passar, non dico giorno, ma istante, senza patire. E tutta la vita è veramente, per propria natura immutabile, un tessuto di patimenti necessarii, e ciascuno istante che la compone è un patimento.
      Di più l'uomo dev'esser certo di provare in vita sua più o meno, maggiori [2554]o minori, ma certo gravi e non pochi di quei patimenti accidentali che si chiamano mali, dolori, sventure, o che provengono dai vari desiderii dell'uomo ec. E quando anche questi non dovessero comporre in tutto se non la menoma parte della sua vita, (com'è certo che ne comporranno la massima), essendo egli d'altra parte certissimo di passar tutta la vita senza un piacere, la quistione ritorna a' suoi primi termini, cioè se essendo meglio il non patire che il patire, e non potendosi vivere senza patire, sia meglio il vivere o il non vivere.


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Zibaldone. Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
Parte Prima
di Giacomo Leopardi
pagine 1913