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      (22. Sett. 1823.)
     
      Si suol dire che gli antichi attribuivano agli Dei le qualità umane, perch'essi avevano troppo bassa idea della divinità. Che questa idea non fosse appo loro così alta come [3495]tra noi, non posso contrastarlo, ma ben dico che se essi attribuirono agli Dei le qualità umane, ne fu causa eziandio grandemente l'aver essi degli uomini e delle cose umane e di quaggiù troppo più alta idea che noi non abbiamo. E soggiungo che umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare e inalzar gli uomini; e ch'effettivamente non più fecero umana la divinità che divina l'umanità, sì nella lor propria immaginazione e nella stima popolare, sì nella espressione ec. dell'una e dell'altra, nelle favole, nelle invenzioni, ne' poemi, nelle costumanze, ne' riti, nelle apoteosi, ne' dogmi e nelle discipline religiose ec. (22. Sett. 1823.). Tanto grande idea ebbero gli antichi dell'uomo e delle cose umane, tanto poco intervallo posero fra quello e la divinità, fra queste e le cose divine (non per abbassar l'une ma per elevar l'altre, nè per disistima dell'une ma per altissimo concetto dell'altre), ch'essi stimarono la divinità e l'umanità potersi congiungere insieme in un solo subbietto, formando una persona sola. Onde immaginarono un intiero genere participante [3496]dell'umano e del divino, participazione che lor sembrò naturalissima, e ciò furono i semidei. E similmente i fauni, le ninfe, i pani ed altre tali divinità, anzi semidivinità126 terrestri, acquatiche, aeree, insomma sublunari, reputate mortali, si possono ridurre a questo genere di partecipanti (vedi il Forcellini in Nympha): sebben elle erano inferiori ai semidei, come Ercole (di cui vedi Luciano Dial. d'Ercole e Diogene, che fa molto a proposito), cioè participanti forse di minor parte di divinità e più d'umanità o mortalità; siccome gli eroi, finch'essi sono mortali possono parere un grado inferiori a' Pani, ninfe ec. cioè men divini.


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Zibaldone. Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura
Parte Seconda
di Giacomo Leopardi
pagine 1555

   





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