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      Oggi l'Italiano può guardare lo straniero, misurandosi con esso, e deve saper confessare opportunamente d'essere da meno, dove effettivamente sia tale, e trarre da questa confessione argomento a cercar per ogni miglior via e con ogni più generoso sforzo di farsi migliore, per diventare un giorno pari a qualunque altro popolo civile.
      Una virtù ha da imparare l'Italiano: l'abito del lavoro.
      Non è in tutto falsa l'accusa che ci muovono gli stranieri circa il dolce far niente. Pur troppo, il gusto dell'oziare in molti, del vano fantasticare in altri, del lavorare a sbalzi e a strappi, con furia, ma senza perseveranza, è difetto assai comune negli italiani. Noi mettiamo in burletta i nordici che lavorano dieci o dodici ore al giorno, e riteniamo ch'essi non ne possono fare a meno per mancanza di genio, che in noi invece sovrabbonda e con molto minor fatica ci fa assai meglio riuscire.
      Falso, falsissimo. Buffon definisce il genio pazienza, ed altri hanno ripetuto la stessa sentenza con altre parole; e questo, a mio credere, è troppo.
      Il genio è qualcosa di diverso dalla pazienza, le sta sopra a grande distanza: ma il genio solo non produce nulla, e fa come quegli alberi isteriliti per mancanza d'umor fecondante, i quali non portan frutta ed hanno in breve le foglie avvizzite, tronco e rami languenti.
      Così accade al genio, se non è sostenuto dalla pazienza, quella nobile pazienza che fa perseverare l'uomo nel lavoro, nel lavoro costante, tenace, penoso, onde si rompono i lacci, si superano le difficoltà, e libero allora il genio spazia, operando, padrone dei docili strumenti.


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Volere e potere
di Michele Lessona
pagine 482

   





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