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      Quella valorosa compagnia di volontari, nel fatto di armi d'Airolo, sostenne da sola l'urto delle soverchianti forze nemiche, e coprì l'imprudente ritirata delle truppe ticinesi.
      Terminata la guerra del Sunderbund, Vincenzo Vela ormai soldato per elezione, non volle deporre le armi senza avere come volontario seguito nel 1848 le sorti dell'esercito italiano che combatteva sui campi lombardi per la libertà della patria.
      Poi, dopo il disastro che ribadì le nostre catene, tornò ai suoi studi diletti, e appeso ad un chiodo il fucile, ripigliò lo scalpello che non doveva lasciare più mai.
      E innanzi tutto eseguì in marmo il suo Spartaco, per commissione del duca Litta, che innamorato del raro talento del Vela, non si stancava di procurargli lavoro.
      Quella statua, modellata in proporzioni colossali, fu uno dei più belli e più celebrati lavori che facessero onore alla moderna scultura italiana.
      Spezzate le sue catene, sorto terribile e furibondo a vendicare l'onta del lungo servaggio, il generoso schiavo ribelle s'appresta a colpire col braccio armato il crudele oppressore. La compressione delle labbra, l'aggrottarsi delle sopracciglia, il fissare cogli occhi un vago orizzonte lontano, tutto rivela la tremenda risoluzione di vincere o morire. La faccia rannuvolata porta scritta sulla fronte la procellosa ira che gli bolle nell'animo. Tutta la persona, robusta e nerboruta si muove impetuosamente all'attacco. È la vendetta, è il castigo, è l'angelo della libertà.
      La pubblica mostra dello Spartaco fu un trionfo pel Vela.


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Volere e potere
di Michele Lessona
pagine 482

   





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