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      Ciò accade perchè le parole risultano dall'agglutinamento di due radici, una sempre immobile e l'altra mutabile che serve ad indicare i tempi, le conjugazioni: il passivo, per es., è espresso facendo seguire, agglutinare, al verbo una particella che vuol dire: soffrire, andare o mangiare; in ogni vocabolo poi alcune vocali si mutano per armonizzare con le vocali dominanti, che le precedettero (12).
      I popoli della Polinesia in luogo della comparazione sostituiscono la ripetizione; non conoscono i nomi astratti, generici, per esprimere, per es., uccello, pesce, e n'hanno centinaja per esprimere uno stesso oggetto, canguroo o lancia; mancano delle lettere b, c, d, f, g, x, y e z; e limitano la loro numerazione al 2, al 3. -
      Veniamo ora alle lingue, così dette polisintetiche parlate dalle razze americane, analoghe in alcuni punti a quelle in uso fra noi dai Baschi. Lì non si distingue più il maschile dal feminile, ma il corpo animato dallo inanimato, singolare sofisticheria in persone così poco inclini alle idee astratte; ma il carattere più speciale di quelle lingue è che, avendo, come le sopracitate, un lessico poverissimo, esprimono la più gran parte delle loro idee coll'accoppiare smozzati alcuni pochi vocaboli semplici, radicali, formandone un tutto affatto nuovo: per esempio, se vogliono accennarvi le unghie, la parola unghia essi non la posseggono, ma essi hanno la parola pietra, la parola uomo e la parola braccio; dovrebbero dire, invece di unghia, pietra del braccio dell'uomo: essi vengono fuori con un vocabolo polisintetico hut-tzai che sarebbe come se un Italiano dicesse: piet-bracc-uom.


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L’uomo bianco e l’uomo di colore.
Letture su l'origine e la varietà delle razze umane
di Cesare Lombroso
Editore Fratelli Bocca
1892 pagine 251

   





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