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      Diogene vedendo questo, e non avendo niente da fare (perchè nessuno lo adoperava a niente), succintasi la tunica, si messe con grande studio a rotolar su e giù pel Cranèo la botte nella quale abitava. E dimandandogli un suo conoscente: Perchè fai questo, o Diogene? Rotolo anch’io la botte, rispose, per non sembrare io solo scioperato fra tanti affaccendati. Anch’io dunque, o mio Filone, per dir qualche parole in un tempo di tanti parolai, e non rimaner muto come le comparse nella commedia, ho creduto bene di fare il mio potere, di rotolare la botte mia; ma non di scrivere una storia, nè di raccontar fatti, chè non sono tanto ardito, non aver questa paura di me. Io so bene che pericolo è a rotolar su le pietre, specialmente questo mio botticello, che è di creta e non molto forte, e se intoppa in qualche ciottolo, ei si rompe, e ne dovrò raccogliere i cocci. Ciò che io mi son proposto, come pigliar parte nella guerra standomene al sicuro fuori la mischia, ora te lo dirò.
      Da questo fumo, da quest’onda, e da tutti i pensieri che vanno con lo scrivere, io mi terrò lontano prudentemente: io voglio dare qualche avvertimento e pochi precetti agli scrittori, per aiutarli nella fabbrica, e non pretendo che su l’edifizio si scriva il mio nome, perchè io appena con la punta delle dita tocco la creta. Benchè molti credano che non han bisogno di precetti per questo, come non han bisogno di arte per camminare o guardare, o mangiare, e che scrivere una storia sia cosa a tutti facile ed agevole, purchè uno sappia esprimere ciò che gli viene in mente: pure tu sai, o amico mio, che questa non è di quelle imprese che si pigliano per niente e si conducono con agevolezza, ma più che gli altri componimenti vuole moltissima cura, se, come dice Tucidide, si vuol fare un monumento per l’eternità. So bene che non persuaderò a molti, anzi parrò molesto ad alcuni, specialmente a quelli che hanno già compiuta e pubblicata la loro storia.


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Secondo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1862 pagine 538

   





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