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      L’isola chiamavasi la Cavallara, e la città Acquavittima.(31) Le donne adunque ci presero, e ciascuna condusse uno di noi a casa sua e l’ospitò. Io andando un poco a rilento, perchè il cuore non mi presagiva bene, e guardando attentamente intorno, vedo molte ossa e teschi umani sparsi qua e là: avrei voluto gridare, chiamare i compagni, correre all’armi, ma mi tenni; e cavata la santa malva, fervorosamente me le raccomandai, che mi scampasse dai presenti pericoli. Ed ecco poco appresso, mentre la mia albergatrice s’affaccendava per la casa, le vidi non gambe di femmina ma unghie di asina. Sfodero la spada, l’afferro, la lego, le dimando: Dimmi, che è cotesto? Ella non voleva, ma pure infine parlò e disse che esse erano ninfe marine, chiamate Gambedasine, e mangiano i forestieri che quivi capitano. Li ubbriachiamo, soggiunse, ci corchiamo con essi, e mentre dormono li accoppiamo. All’udir questo, la lascio qui legata, salgo sul tetto, e con un grido chiamo i compagni: e venuti racconto il fatto, addito le ossa, e li conduco a quella legata, la quale subito diventò acqua, e sparì: ma io per una pruova messi la spada nell’acqua, che diventò sangue. Tornati in fretta alla nave, andammo via.
      Al rompere del giorno noi vedendo il continente credemmo fosse quello che è opposto al nostro: onde ringraziati ed adorati gl’iddii, consultammo sul da fare. Alcuni proponevano di scendere per poco, e subito tornare indietro: altri lasciar la nave lì, ed entrar dentro terra, e conoscere chi v’abitava.


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Secondo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1862 pagine 538

   





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