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      na ci mette una teccola. Credendo adunque che quel nero fosse un natural neo, più io ammirava Prassitele che seppe nascondere la difformità della pietra dove meno si può biasimare. Ma la tempiera che ne stava vicino, ci narrò una nuova ed incredibile storia. Disse adunque che ci fu un giovane di non ignobile famiglia (per quel che fece, se n’è perduto il nome), il quale venendo spesso in questo sacro ricinto, per sua mala ventura s’innamorò della dea; e passando le giornate intere nel tempio, da prima fu creduto timorato e divoto. La mattina si levava con l’alba, e veniva qui, e la sera malvolentieri se ne tornava a casa; e tutto il giorno seduto dirimpetto la dea, teneva fissi gli occhi in lei. Faceva un continuo pissi pissi, e con certe mezze parole si lagnava sempre d’amore. Quando poi voleva per poco ingannare la sua passione, diceva un motto, pigliava una tavola, vi annoverava sopra quattro dadi di damma libica, e provava la sua speranza: traeva, e guardava: se il tiro era buono, se era quello di Venere, ed ogni dado presentava una faccia diversa, egli scoccava baci, e lieto credeva otterrebbe il suo intento; ma se, come suole avvenire, traeva male su la tavola, e i dadi facevano il peggior punto, se la pigliava con tutta Cnido, come se avesse una terribile e insanabile calamità: indi a poco ripigliava i dadi, e con un altro tratto rimediava alla prima sventura. Crescendogli sempre più questa frenesia, sovra ogni muro, sovra ogni scorza di tenero arboscello scolpiva il nome della bella Venere; Prassitele per lui era un altro Giove; e quanti begli arredi e masserizie aveva in casa tutto offeriva alla dea.


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Secondo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1862 pagine 538

   





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