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      Come se ne vendicò, o Eucrate? Vorrei saperlo, benchè Tichiade neppure lo crederà.
      E quegli: Molti oboli gli stavano così gittati innanzi ai piedi, e alcune monete d’argento gli erano appiccate con cera ad una coscia, e piastre d’argento: tutte offerte e voti di quanti egli aveva risanati dalla febbre. Avevamo un servo libio, una trista lana di palafreniere, il quale fece disegno di rubarsi ogni cosa una notte, e la rubò, colto il tempo che la statua era discesa. Come Pelico tornò, subito s’accorse del furto, ed odi in che modo se ne vendicò e fece sorprendere il Libio. Per tutta la notte quello sciagurato andò girando per l’atrio, non potendo uscirne come se fosse in un laberinto, finchè fatto dì fu preso col furto addosso. Convinto del misfatto ebbe non poche battiture: non visse molto, morì da quel malvagio che egli era; ed era flagellato ogni notte, come ei diceva, sì che la mattina gli si vedevano i lividori sul corpo. Or va’, o Tichiade, e beffa Pelico, e di’ ch’io son vecchio quanto Minosse, e imbarbogito.
      O Eucrate, diss’io, finchè il bronzo è bronzo, e questa è fattura di Demetrio d’Alopeca, che non faceva Iddii ma statue di uomini, io non temerò mai la statua di Pelico: il quale non temerei neppure se fosse vivo e meco sdegnato.
      A questo il medico Antigono disse: Anch’io, o Eucrate, ho un Ippocrate di bronzo, alto un cubito, il quale quando la lucerna è spenta va per tutta la casa, fa rumore, rovescia i bossoli, mesce i farmaci, sbatte la porta, specialmente quando trascuriamo il sacrifizio che usiamo di fargli ogni anno.


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Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini
Volume Terzo
di Lucianus
Edizione Le Monnier Firenze
1862 pagine 448

   





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