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      Egli, che in dieci volumi di liriche, aveva descritto fondo all'universo, che non aveva mostrato mai la più lieve inquietitudine di non possedere lo strumento perfetto ed insuperabile dell'estrinsecazione lirica, sentì nascere, negli abissi della sua mente, un dubbio imperioso. E certo, come di ogni altro suo pensamento, che a nessuno tale dubbio fosse mai passato pel capo, lo espresse nelle forme solenni di un dialogo socratico con Giuseppe Giacosa; come se alla mente di quel morituro forse per svelarsi più agevole la verità suprema sull'al di là delle forme ritmiche. - «Eppure» - egli disse all'amico improvvisato «la poesia, quella che vuol comprendere più d'anima e più d'universo, oggi, soffre della sua angustia metrica e cerca ansiosamente di rompere i vincoli secolari. Troppo le usate forme son povere di ritmo e irrigidite. Ma, se tu paragoni la più ricca stanza di una canzone petrarchesca, perfetta nella sua fronte e nella sua sirima, nei suoi piedi, nelle sue volte e nella sua chiave, se tu la paragoni a una strofe logaedica di Pindaro o a uno stasimon eschilèo, ti appare tutta la diversità che corre tra la dura constrizione del rimatore e la libera creazione ritmica del cantore. La strofe greca è una creatura vivente in cui pulsa la più sensibile vita che sia mai apparsa nell'aria. È difficile dir quale, tra le cose naturali, la eguagli nell'infinita delicatezza ed esattezza della contestatura. La misteriosa compenetrazione dei ritmi fluidi ti fa pensare talvolta al miracolo dell'arcobaleno, dove tu non sai scorgere il passaggio dall'uno all'altro colore, se bene tu senta nel tuo occhio la molteplicità della gioia.


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Antidannunziana
D'Annunzio al vaglio della critica
di Gian Luigi Lucini
Studio editoriale lombardo
1914 pagine 379

   





Giuseppe Giacosa Pindaro