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      In queste trasposizioni di perversità, che forse non accorge, o se accorge esercita per jattanza e per stranire come un secentista, coll'atto, la sciocchezza contemporanea, cioè il suo pubblico; - in queste deviazioni del buon senso, egli crede di recitare la maschera o tragica, o erotica, od ascetica della sua letteratura: crede il poeta abruzzese d'essere insieme un qualche cosa di sontuoso, di stravagante, di fatidico, un acuto prosettore di sentimenti e di passioni, sdrajate sulle bianchissime e marmoree tavole della psicologia sperimentale, della necroscopia e della vivisezione; intorno alle quali egli pontifichi la scienza nuova tra il cabalistico, l'officiante liturgico e l'anatomico, tra il professore, l'artista e l'occultista. Egli fa vedere di voler essere tutto questo, dalla posa, dalla intonazione, dalla voce, dal modo di vestire, ma non riesce che a farsi accorgere, pressapoco, così. La sua ambizione d'artista gli ha fatto gomitare e strofinare, vicino a questa meta, la persona; fors'anche vi si abbatté contro; la furia della corsa, - è necessario navigare, non vivere -, lo fece scivolare oltre il segno, fuori di pista, dove non vi è classifica, né di partenza, né di arrivo. Perché più che attendere al capolavoro, coi mezzi vecchi e nuovi di cui dispone un poeta, egli intendeva definire e ripolire a perfezione l'opera d'arte - sé stesso; ciò che è molto più difficile; essendo che la natura stessa si incarica di questa statua animata e magnifica, e, quando la si contraria, come usa fare il D'Annunzio, non solo non ci si perfeziona, ma si sciupano quelle diritte virtù native di cui ci aveva donato, non per scialaquarle o per lasciarle poltrire, ma per usarne a migliore e maggior profitto nostro e d'altrui.


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D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo
di Gian Luigi Lucini
pagine 126

   





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