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      L'humorista è l'uomo lietamente infelice: può chiedersi in ogni momento: "S'io fossi felice sarei più lieto?". E rispondere: "No". Si accontenta del poco? Mai più: egli possiede il massimo; si conosce benissimo e dietro a questa coscienza persuasa di sé stesso giudica li altri: sofre dunque nello stesso momento in cui ha ragione di provarsi la propria superiorità.
      D'Annunzio non è un infelice; non riflette sopra sé stesso l'anima collettiva; non può giudicare, perché, nello spirito della folla, ha smarrita la sua, conglobatovisi. In che è egli superiore de' suoi ammiratori? Li ammiratori, storditi dalla sua musica, per cui non possono afferrare ciò che dicono le parole, non lo sorpassano di un pelo: donde ci accorgiamo che a lui mancò la grazia dolorosa di aver soferto più di loro, sì che non ha saputo raffinarsi, nell'angoscia morale, il carattere. Soferenze, le piccole contrarietà della vita? L'appetire ed il comperare quanto le facoltà non permettono? quindi far debiti ed il non poterli pagare? La vendita della Capponcina? Li scandali donneschi? Le liti giudiziarie? - Ma un qualunque disonesto commerciante, od impiegato, può imbattersi in queste disavventure. Il dolore del poeta è un dolore universale come la sua gioja: eccovi Dante e Foscolo a proposito, Lessing e Verlaine, Byron e Rimbaud, Leopardi ed Alfred de Vigny: tanti tipi massimi, tanti massimi dolori che clamarono la propria passione necessaria per loro e per li uomini, che ne sanno comprendere la purificata, angosciosa bellezza.


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D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo
di Gian Luigi Lucini
pagine 126

   





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