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      Per forza deve mentire: non è in possesso dei mezzi per cui si raggiunge il vero; non ne detiene l'istrumento razionale e logico, perché è bestemia affermare che la verità non esista, ma è pur tragicamente doloroso, che, col cercarla la si trovi. A che dunque sofrire? Il genio è obbligato alla soferenza, perché non può viver se non cercando la verità: D'Annunzio non trova ciò necessario. La Verità? Nel pozzo, nuda: non deve risorgere terribilmente formidabile per chi la riscopre e per li altri. L'Abruzzese non sa concepire la missione di essere sincero, cioè di vivere bene almeno coll'arte: a che gli gioverebbe? Ma, sopra tutto, sarebbe egli capace di vivere come il genio? Egli non è dunque preso dall'Idea, ma dalla sensualità plastica, formale: egli può dirsi d'essere schiavo della maestria e della formalità. Non può chiamarsi né il rappresentante di un'epoca, né di una razza: l'epoca e la razza hanno procreato intelligenze superiori alla sua, plasmati avvenimenti ch'egli non ha saputo comprendere: la parte più bella del nostro tempo, che è il suo, gli è sfuggita, le pagine più belle e nobili non lette, i sentimenti più cari e più generosi sconosciuti; il coraggio civile del sacrificio ignoto. Che riassume? Il fremere del senso, della cupidigia, della vanagloria; il farneticare del successo immeritato? - Egli potrà far scuola voluttuaria di apparati, non leggerà lezioni in Ateneo, ma darà norme da bottega; egli è orbo d'ogni filosofia e d'ogni amore, perché le sue comode facilità disprezzarono ogni messianismo e risero le sue labra in faccia all'umile ed ispirato pastore Amos, quando si mise a predire dietro la voce: "Or vanne e fammi da profeta!


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D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo
di Gian Luigi Lucini
pagine 126

   





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