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      Così viaggiano, per la gioja e commozione de' venturi, imperatori e miliardari di poesia e di filosofia in incognito, tra noi, quelli di cui ci è ignoto l'imperio e la ricchezza, o vengono stimati un sopracarico, una inutile generosità, od una umiliante originalità per l'altrui ignoranza. Ond'io, per antitesi, ho riconosciuto tra questi alcuno, come venne da Boerne distinto Richter: "Siccome egli da solo era più ricco d'oro purissimo che li altri tutti insieme di stagno, veniva attribuito alla sua vanità, e quindi fatto oggetto di biasimo, il costume ch'egli aveva di sempre, mangiando o bevendo, appigliarsi a vasi d'oro, inverniciati di biacca": ciò che non si direbbe ad esempio di Gabriele D'Annunzio che beve e mangia ed evacua in vasi di creta, è vero... ma dorati di porporina: un'altra serie di atti inavvertiti, dai quali può sorgere, per l'arguzia dell'avvisatore, il lievito di un suo proprio humorismo.
      Qui viene ad impiegarsi la sua ricchezza: è tanto ricco che è poverissimo, tutto in esterno ed in facciata ornamentati, come quei palazzetti di poco costo, smilzi per non sprecar area, a pinacoli ciechi, cui non si accede, a gugliette posticcie, a cornicioni in gesso, a modanature, a finestre e finestrette che non servono e non si possono aprire, a stanzuccie basse, anguste, soffocanti di dorature, che appaiono ampie pe' giuochi delli specchi, contro cui, passeggiando nella semi oscurità velata ed ipocrita dei cortinaggi ci si imbatte e si schiaccia il naso. Egli che è tumido e spumante come una spugna zuppa cui, nello spremerla, zampillò tutto di che si è assorbita; è secco, friabile, calcinato come una pomice, e non dà umore, né lagrime, né sangue.


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D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo
di Gian Luigi Lucini
pagine 126

   





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