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      . Maschera impropria di Zeus; pastore e zampognaro Titiro d'Abruzzi tenta solo ed invece accordar la piva al rombo del tuono; a mezzo bestemmia, poi ingiuria; termina collo spezzare il piffero dello strumento sotto la pianta del piede inciociato e ne sventra l'otre tumido di vento: in un sibilo crepa, si svuota, e floscio, raggrinzito, a crespe, a pieghe, membrana sudicia e caprina, si riversa inutile. Codesto Zeus perdeva presto serenità e magistero.
      L'avevano messo sopra un plinto di creta cotta al sole, statua di neve, e gli avevano creduto come ad un feticcio; non vollero mai ascoltare coloro che li avvisavano dell'equivoco, mostrandolo intento a scimiottar modi, misure, ragioni, per moda e per vanità39. Giacché si vanagloriava e si inorgogliva, nelle deplorevoli trasformazioni, massimo modello di impudenza letteraria; e, jeri, si era innamorato delle nudità multicolori, molto-metalliche, molto-gemmate, molto-callipigie delle sue Veneri d'acqua dolce; oggi, faceva l'Anacreonte di alcuni motivetti bacchici, per tornare al San Francesco pargoleggiante; poi, si metteva il frigio in testa e brandiva la fiaccola anarcheggiante; o voleva spacciarsi per l'Omero dei garibaldini, l'iperuomo burbanzoso, o l'innamorato della ghigliottina, continuando a fornicare colla Gioconda; in fine, si rimetteva in bella posa neo-classica, dopo d'aver disturbato Nietzsche, ripreso dalla religione di sé stesso, e dalle sue bellezze, senza pensare ad inconvenienze, in modo, da farsi strofinare e rigirare da torno le donnine del cuor leggiero e di pesante parrucca e col gusto di spampanare le iperboliche virtù del suo bel essere amorino, o Narciso impomatato, che si rimira nello stagno, in cui deve cadere sommerso.


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D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo
di Gian Luigi Lucini
pagine 126

   





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