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      Esso funge, per loro, come l'incoronata Humilitas in sullo stemma dei Borromei, e l'orgogliosissima modestia in sulle lettere manzoniane. Oggi, precipuamente, si valgono dell'incognito Guglielmo II, affezionato alle turgide grazie callipige della romanità, e Vittorio Emanuele III, compreso monarca di socialismo e di numismatica: per maggior ragione l'usa l'imperatore d'ogni lirica D'Annunzio I ed Ultimo.
      Si recò egli, un dopo pranzo del giugno 1909, con velocissima ed elegantissima automobile, proveniente da Firenze, alla celebre abbazia di Montecassino - abituata alle visite del Kaiser Hohenzollern - là dove l'abate Tosti, vittima della politica ecclesiastica del frettoloso Crispi, morì di glorioso rimorso, venuto in sospetto al Quirinale, sconfessato dal Vaticano; - e vi scese, sorridendo, per visitarvi quella ricchissima biblioteca e li archivi, senza farsi riconoscere dai monaci, custodi del monumento.
      In foresteria gli fu presentato -come si usa - il registro dei visitatori, per apporvi la sua firma. Ed egli firmò: "Gentile d'Albenga". Senonché la fisonomia... l'eleganza... la provenienza, lo avevano già... reso sospetto; la firma lo tradì completamente. "Ma... non è ella il sommo D'Annunzio?" arrischiò un professore. Ed egli pronto, originalissimo: "Io, quell'alta cima? Ma loro sognano?". Null'altro: volle visitare ogni cosa, ammirò, e la sera stessa ripartì alla volta di Napoli, lasciando a quei monaci "napoletani" largo campo di pettegolezzi "ncoppa à pazzia e à superbia d'ò poeta".


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D'Annunzio al vaglio dell'Humorismo
di Gian Luigi Lucini
pagine 126

   





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