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      La Gyp, in questi ultimi tempi, avendo scorso, allegra e petulante, per l'istorie di caccia e d'alcova e criticato sorridente i suoi pari, venne fraintesa. Nella letteratura, in cui occupa un posto non indifferente sia perché lo meriti veramente, sia perché ne ebbe fortuna, ora rimane come una bambina irascibile e divertente. I critici non la prendono mai sul serio, né lei, né l'opera sua, ma ne hanno piacere.
      Cosí, quando un Quesnay de Beaurepaire, procuratore della Repubblica, era giornalmente turlupinato da un amabile ingannatore, che lo faceva correre in Belgio ed in Isvizzera, all'incontro dell'ignoto depositario de' documenti provanti il tradimento di Dreyfus; quando, Willette e Caran d'Ache, crudeli, sfoggiavano le loro caricature di Dame velate, speronate e catrafatte e di Gonze e di Du Patis incapucciati di cuffie; ebbe la ventura, la Gyp, di farsi rapire, per ischerzo una notte, allettata dall'esca dello scoprire, da alcuni burloni della politica e di passare ventiquattr'ore, al buio, in una cantina suburbana, credendo d'essere sequestrata, alla vigilia di una rivoluzione.
      Ma non per questo, la Gyp, marchesa di... cessa d'essere un'ottima letterata.
      Non come Lavedan; niente a fatto come Anatole France, rimanendo in quel genere, si piace di una sua ironia, dentro ai romanzi dialogati. Ma Enrico Lavedan, se, ai superficiali, appare non temibile e senza conseguenza, è troppo humorista convinto per non nascondere il moralista (il moralista è sempre un distruttore) sotto la sua elegante bonomia di boulevardier; ed il France, impeccabile classico, forbito e brillante, che sa tutta l'umanità delle lettere e del cuore, si mostra troppo nell'universitario professore Bergeret, per non incutere un certo e salutare timore, avvicinandosi alquanto al libertarismo sentimentale.


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Scritti critici
di Gian Luigi Lucini
pagine 354

   





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