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      Sin dall'infime barbe egli si spargeTutto per tutto il tronco e tutti i rami.
      Passan le voci entro le chiuse mura:
      E scorre spesso un duro gel per l'ossa.
      Il che non avverrebbe in modo alcuno,
      Se non fosser nel mondo i vôti spaziOv'ogni corpo penetrar potesse.
      Al fine: ond'è che di due cose egualiDi mole una sovente ha maggior pondo?
      Che s'un fiocco di lana in sè chiudesseTanto di corpo quanto il piombo e l'oro,
      Egli altrettanto anco pesar dovrebbe;
      Chè proprio è sol di tutt'i corpi il premereIn giù le cose, ed al contrario il vôto
      Di sua natura è senza peso alcuno.
      Dunque, se di due cose eguali in moleL'una più lieve fia, chiaro ne insegna
      D'aver manco di corpo e più di vôto:
      Ma, s'è più grave, pel contrario mostraD'aver manco di vôto e più di corpo.
      Che sia dunque fra' corpi il vôto sparso,
      Benchè mal noto a' nostri sensi infermi,
      Per l'addotte ragioni è chiaro e certo.
      Nè qui vogl'io che devïar dal veroTi possa mai quel che sognaro alcuni;
      E perciò quant'io parlo ascolta e nota.
      Dicon che 'l mare allo squammoso armentoApre l'umide vie, perch'egli a tergo
      Spazio si lascia ove concorran l'onde;
      E che in guisa simìle ogni altra cosaMover si puote e cangiar sito e luogo.
      Ma falso è ciò: ch'ove potranno alfineI pesci andar, se non dà luogo il mare?
      E dove al fin, se non dan luogo i pesci,
      Il mar n'andrà, benchè cedente e molle?
      Forz'è dunque o privar di moto i corpi,
      O fra le cose mescolar il vôtoChe sia cagion de' movimenti loro.
      S'al fin due piastre di lucente acciaioSi combaciano insieme, indi in un tratto


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Della natura delle cose
di Tito Lucrezio Caro
Casa Editrice Sonzogno Milano
1909 pagine 330