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      Poich'interposte fûr pause alla vitaE sparsi i moti errâr lungi da' sensi.
      Poichè quel ch'è per essere infeliceD'uop'è che vivo sia nel tempo in cui
      Possa a mal soggiacere: or; se la morteDa questo lo difende, e proibisce
      Che quegli in cui ponno adunarsi i maliStessi che noi fan miseri vivesse
      Ne' secoli trascorsi; omai ne liceSenza dubbio affermar che nella morte
      Non è di che temere, e che non puoteEsser mai chi non vive egro e dolente,
      Nè punto differir da quei che natiUnqua al mondo non son quelli a cui tolta
      Fu da morte immortal vita mortale.
      Onde: se vedi alcun che di sè stessoAbbia compassïon, perchè sepolto
      Dopo morte il suo corpo imputridirsiDebbia, o da fiamme ardenti esser consunto,
      O lanïato da rapaci augelli,
      O da fiere sbranato; indi ti liceSaper che non sincero il cor gli punge
      Qualche stimolo cieco; ancor ch'e' neghiDi creder che sentir dopo la morte
      Si possa alcuna cosa; onde non serbaCiò che promette largamente altrui,
      Nè dalla vita sè medesmo affattoStacca, ma, nol sapendo, alcuna parte
      Fa che resti di sè. Chè, mentre vivoL'uom pensa che morendo o degli uccelli
      Fia pasto il proprio corpo o delle belve,
      Tosto di sè medesimo gl'incresce;
      Sol perchè non si libera a bastanzaDal corpo agli animai gettato in preda:
      Ma quel si finge, e del suo proprio sensoL'infetta; e quindi, a lui stando presente,
      D'esser nato mortal sdegna; e non vedeChe nella vera morte esser non puote
      Nessun altro sè stesso, il qual vivendoPianga sè morto o lacerato od arso.
      Con ciò sia che, se mal fosse, morendo,
      Che dall'avido rostro o dall'ingorda


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Della natura delle cose
di Tito Lucrezio Caro
Casa Editrice Sonzogno Milano
1909 pagine 330