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      Feminil guancia ancor piuma non veli,
      Quasi a fermo bersaglio il pensier volgeTosto ond'uscío l'aspra sua piaga, e brama
      D'unirsi a chi l'offese e di lanciareL'umor tratto dal corpo entro il suo corpo,
      Perch'il molto desio piacer gli annunzia.
      Quest'è Venere in noi: quindi fu trattoD'amore il nome; indi stillaro in prima
      Le veneree dolcezze, indi le freddeCure i petti ingombrâr; poichè, se lungi
      È l'oggetto che s'ama, al men presentiNe stan l'effigie e 'l desiato nome
      Sempre all'orecchie si raggira intorno.
      Ma fuggir ne convien l'esca d'amoreE l'imagini sue, volgendo altrove
      La mente, e dal soverchio umor del corpoSgravarne ovunque n'è concesso, e mai
      Fissa non ritener d'un solo oggettoNel cor la brama e per noi stessi intanto
      Nutrir cure mordaci e certo duolo:
      Con ciò sia che la piaga ogn'or più vivaDiventa e col nudrirla infistolisce,
      Cresce il furor di giorno in giorno e sempreLa miseria del cor fassi più grave,
      Se tu con dardi nuovi i primi dardiProntamente a cacciar non t'apparecchi
      Come d'asse si trae chiodo con chiodo.
      E, con vagante affetto or quello or questoDolce frutto di Venere cogliendo,
      Le fresche piaghe non risani e volgiDell'alma afflitta in altra parte i moti.
      Nè da' frutti d'amor chi schiva amoreMena lungi la vita, anzi ne prende
      Senza travaglio alcun tutti i contenti:
      Con ciò sia che più certo e più sinceroQuinci tragge il piacer chi mai non pose
      Il cauto piè su l'amorosa pania,
      O tosto al men senza invescarvi l'aleNe 'l ritrasse e fuggío. Chè gli ostinati
      Miseri amanti, i quai nel tempo stesso


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Della natura delle cose
di Tito Lucrezio Caro
Casa Editrice Sonzogno Milano
1909 pagine 330

   





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