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      Non potrebbero al sol, s'egli il principioD'un perpetuo fulgor non ministrasse.
      Anzi i lumi terrestri al buio accesi,
      Le pendenti lucerne e le corruscheDi fumante splendor pingui facelle,
      Anch'esse ardendo in cotal guisa avacciansiDi sparger nuova luce, ed istan sempre
      Di scintillar con tremole fiammelle;
      Instano, e luogo alcun quasi interrottoNon lascia il lume lor: con sì gran fretta
      De' suoi lucidi rai l'alta ruinaCol veloce natal sostiene il foco.
      Il sol dunque, così, la luna e tutteL'auree immobili stelle e le vaganti
      Creder dèi che per altro ogn'ora ed altroSuccessivo natal vibrino intorno
      Il lume e perdan la primiera forma:
      D'uopo è pur dunque il confessar che questeCose, com'altri pensa, esser non ponno
      Di corpo irresolubile ed eterno.
      In somma: dall'etade il bronzo il marmoVinto al fin non si mira? e l'alte rôcche
      Non rovinano a terra? e il duro sassoNon è róso e marcisce? e l'are e i templi
      De' numi eterni e' simolacri e gl'idoliNon vacillan già lassi, e d'ogn'intorno
      Mostrano aperto il travagliato fianco?
      Nè può la santa maestà del fatoDebellare i confin nè farsi incontra
      Di natura alle leggi e vïolarle.
      Al fin non veggiam noi d'ogni uomo illustreCeder l'alte memorie ed invecchiarsi
      Per subito accidente? e le robusteSelci da' monti alpestri anco alle volte
      Staccarsi e rovinar, nè d'un finitoTempo soffrir le smisurate forze?
      Con ciò sia che staccarsi e 'n giù repenteNon potrebber cader, se dell'etade
      Fin da tempo infinito ogni urto ogn'impetoPrive d'ogni fragor sofferto avessero.
      Al fin: mira oggi mai ciò che d'intorno


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Della natura delle cose
di Tito Lucrezio Caro
Casa Editrice Sonzogno Milano
1909 pagine 330