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      Del resto i Romani non coltivarono mai le scienze per sč stesse, e se talora le riguardarono come una materia d'erudizione, non pensarono mai a fare indagini e scoperte. Se ne levi le Questioni naturali di Seneca, ove t'abbatti in idee che sembrano originali e che forse son prese dalla Grecia, tutti gli autori latini, i quali hanno scritto di scienza non sono che compilatori o semplici traduttori. Alcuni toccarono dell'inettitudine letteraria dei Romani, i quali, senza lo studio e l'imitazione degli esemplari greci, non avrebbero avuto letteratura; ma ancor pių manifesta č la loro inettitudine scientifica. Questo popolo di agricoltori e soldati, stimava poco, come č noto, le pure speculazioni dello spirito, ed in matematiche, per esempio, studiava soltanto quello ch'era necessario per l'agrimensura, la castrametazione, l'architettura, oppure per l'astrologia giudiziaria. Un fatto riferito da Plinio mostra qual fosse l'ignoranza dei Romani nelle scienze esatte in un tempo non lontano da quello in cui visse Lucrezio. Sebbene i greci avessero dei quadranti solari da quasi tre secoli, i Romani n'ebbero conoscenza solo al tempo della prima guerra punica. Fino allora avevano senza pių tre divisioni del giorno; il levar del sole, il suo tramonto e il suo passaggio al meridiano, passaggio che si determinava alla grossa cosė. Avevan notato che quando il sole era al suo pių alto punto, appariva tra due edifici vicini alla Curia. Tutti i giorni un ufficiale dei Consoli aveva il carico di osservare e proclamare ad alta voce questa comparsa.


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Della natura delle cose
di Tito Lucrezio Caro
Casa Editrice Sonzogno Milano
1909 pagine 330

   





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