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      Per tanto affermava come ciascuno che amava la patria e lo onore suo era necessitato a risentirsi e ricordarsi della virtù di Bardo Mancini, il quale trasse la città, con la rovina degli Alberti, di quelli pericoli ne' quali allora era; e come la cagione di questa audacia presa dalla moltitudine nasceva da' larghi squittini che per negligenzia loro s'erano fatti, e si era ripieno il Palagio di uomini nuovi e vili. Concluse per tanto che solo ci vedeva questo modo a rimediarvi: rendere lo stato ai Grandi, e torre l'autorità alle Arti minori, riducendole da quattordici a sette; il che farebbe che la plebe ne' Consigli arebbe meno autorità, sì per essere diminuito il numero loro, sì ancora per avere in quelli più autorità i Grandi, i quali per la vecchia inimicizia gli disfavorirebbero: affermando essere prudenza sapersi valere degli uomini secondo i tempi; perché, se i padri loro si valsono della plebe per spegnere la insolenza de' Grandi, ora che i Grandi erano diventati umili e la plebe insolente era bene frenare la insolenzia sua con lo aiuto di quelli: e come a condurre queste cose ci era lo inganno o la forza, alla quale facilmente si poteva ricorrere, sendo alcuni di loro del magistrato de' Dieci e potendo condurre secretamente nella città gente. Fu lodato messer Rinaldo, e il consiglio suo approvò ciascuno. E Niccolò da Uzano infra gli altri, disse tutte le cose che da messer Rinaldo erano state dette essere vere, e i rimedi buoni e certi, quando si potessero fare sanza venire ad una manifesta divisione della città, il che seguirebbe in ogni modo, quando non si tirasse alla voglia loro Giovanni de' Medici: perché, concorrendo quello, la moltitudine, priva di capo e di forze, non potrebbe offendere; ma non concorrendo egli, non si potrebbe sanza arme fare, e con l'arme lo giudicava pericoloso o di non potere vincere o di non potere godersi la vittoria.


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Istorie fiorentine
di Niccolò Machiavelli
pagine 526

   





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