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      Alieno dalla così detta bella società, per quelle noie che non vanno mai scompagnate, io viveva con tali uomini che non davan luogo a’ versi che tra i bicchieri, e li volevan conditi di sali corrispondenti all’ottuso loro palato. Bisognava dunque rinforzar la dose per essere inteso e gustato. Ecco il vero motivo del genere prescelto a quello che si confaceva alla tempra della mia anima, capacissima, per intervalli, delle più dolci emozioni. Che s’ella mi domanda la spiegazione di questo fenomeno, io non saprei da altro ripeterlo che dall’infinita debolezza del mio carattere, che prendeva in gioventù le abitudini di chi mi attorniava.»
      Così l’uomo francamente giustificava la libertà de’ suoi versi. Senonchè i suoi detrattori confondevano l’uomo coll’artista, ed avevano torto. L’immoralità non è arte; ma è proprio immorale il Buratti? In sei o sette composizioni al più, che non sono gran cosa in dodici volumi di rime, e delle quali non franca la spesa nemmeno di parlare. Del resto è moralissimo, per la semplice ragione che dove la satira predomina e coglie nel vero, c’è sempre moralità. Qualche frase ardita, qualche vocabolo crudo, non prova nulla in contrario. O che si cercano forse in un lavoro poetico frasi e parole?
      Bisogna tener conto di un altro fatto: che il Buratti scriveva in dialetto, e che i dialetti hanno frasi e vocaboli salaci per esprimere con pittoresca efficacia pensieri candidissimi. Non si negherà che maneggiati da un abile artista non offrano una ricchezza di tinte e di mezze tinte, di luci, d’ombre e di sfumature, le quali mirabilmente concorrono all’effetto dell’insieme.


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Il principe dei satirici veneziani Pietro Buratti
di Vittorio Malamani
Tipografia dell'Ancora Venezia
1887 pagine 115

   





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