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      È ciò che il Buratti cercava sopratutto: lo si ascolti dalla sua bocca. «Per cossa el vernacolo, che xe in fondo una lingua come tute le altre, e che trota co le istesse regole de convenzion, per cossa, ripeto, no porla(124) eser suscetibile de qualche slanzo, e vestir al bisogno tuto el nervo de l’eloquenza? I nostri avocati veneziani, che s’ha tanto distinto in passà co la prerogativa de sbragiar in renga(125) de le ore de seguito, ghaveva çerto la facoltà dei primi oratori, e podeva misurarse co la bon’anema de Marco Tullio ne la vivaçità de le invetive. Donca,(126) domando mi, se gh’è sta forza in prosa, per cossa no ghe sarala in poesia, se singolarmente in sto genere mato, nel qual i colori liberi, diametralmente in oposizion a la purità dei principî morali che se va predicando, ghe soministra a l’artista la risorsa grandissima dei contrasti? Un poeta vernacolo no pol che in sta maniera vogarghe sul remo(127) al padre Segneri. Qualunque altra secarìa, usurpando al pulpito i so diriti.» La ragione poetica dei Buratti è tutta quì. Comprendo bene che molti non potranno approvarla, ma almeno siano giusti, giudichino ciò che il poeta ha dato, non ciò che avrebbe potuto dare seguendo opposti principî.
      Tomaso Locatelli lo proclamò l’Ariosto veneziano, ma in pari tempo lo disse inferiore per semplicità al Pastò ed al Lamberti, e per elegante naturalezza al Gritti.(128) Oh Dio! Come si fa ad essere Ariosti, e inferiori al Gritti, al Pastò, al Lamberti? È una sciarada, un indovinello, un logogrifo questa critica dei confronti; un trastullo da accademici o da studenti di liceo.


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Il principe dei satirici veneziani Pietro Buratti
di Vittorio Malamani
Tipografia dell'Ancora Venezia
1887 pagine 115

   





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